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Keith Jarrett on Improvisation
Keith Jarrett Solo Concert
Miles Davis & Keith Jarrett 1971
Keith Jarrett & Chick Corea Plays MOZART(K.365:1.Allegro)

Keith Jarrett è tornato alla Scala. In stato di grazia. Domenica sera il pianista americano 62enne, icona vivente del jazz, si è esibito nel tempio della Lirica. Un ritorno il suo, dopo il concerto del 1995 da cui è stato tratto l'omonimo disco Ecm, sempre da solo, nel segno dell'improvvisazione. Un fiume che scorre il pianismo di Jarrett. Ancora più fisico, verbale, intenso - per così dire - dopo lo stop forzato della fine degli anni Novanta quando, complice un forte esaurimento nervoso (la "sindrome di affaticamento cronico" che aveva fatto temere un addio definitivo alla Thelonious Monk), è rimasto per un paio di anni chiuso in casa senza mai suonare.

Solo, due fari dall'alto a illuminare la scena vuota e lo Steinway & Sons. E la musica di Jarrett che fluisce. Occhialini neri da sole, gilet e camicia nera, in trance continua mentre con le dita crea e ricrea di continuo la sua danza virtuosa sui tasti. Jarrett ha suonato per quasi due ore e mezza. Il primo tempo - quello che sarà il lato A di un disco che si preannuncia memorabile - è stato intenso. Ma sembrava, a tratti, che dovesse accadere qualcosa. Il colpo di scena che ha movimentato la serata e forse caratterizzato l'esibizione in senso positivo è stato un banale colpo di tosse di un inconsapevole e innocente spettatore, ignaro probabilmente di quanto accaduto l'estate scorsa a Umbria jazz. Il 10 luglio scorso a Perugia Jarrett, che doveva esibirsi in trio con Jack DeJohnette e Gary Peacock, il trio con cui gira da anni riproponendo gli standard jazz, si era arrabbiato con i fotografi lasciando di stucco l'organizzazione del festival e il pubblico trepidante (...«Someone who speaks English can tell all these assholes with cameras to turn them fucking off right now»...). Si arrabbiò tanto Jarrett (troppo!) e la città di Perugia prese le distanze al termine dell'esibizione precisando di non avere più intenzione di invitare il pianista.

Ebbene, ieri sera si è sfiorato l'ennesimo incidente. All'inizio del secondo tempo, durante un set armonico "tenderly", mentre Jarrett volava tra i piano e i pianissimo di una serie di arpeggi al miele, qualcuno ha starnutito. L'artista ha smesso di suonare e, decisamente irritato, in piedi ha ripreso i presenti e ha detto che la tosse lo obbligava a suonare in maniera "più dinamica" (...«my music goes bananas»), la tosse manda a puttane la mia musica, in parole povere. Con un richiamo veemente contro la tecnologia e i computer e la civiltà elettronica «che ci stanno facendo perdere tante cose» tra cui, evidentemente, la capacità di ascolto. Le parole di Jarrett hanno gelato il pubblico della Scala.

Lui ha ripreso a suonare e, nonostante gli starnuti soffocati di qualche spettatore (faceva caldo in sala ed è pur sempre autunno e gira il raffreddore), il concerto ha preso un'altra direzione. Da quel momento è salito di intensità. Jarrett era totalmente assorto nella sua musica. In un altro luogo dell'iperuranio pianistico o dentro la sua anima. Gli ultimi tre brani sono stati un crescendo, un gran concerto di un'orchestra sinfonica piuttosto che un piano solo, concentrato di sostituzioni armoniche, scale e controscale, pause e silenzi, arpeggi liquidi. Un gigante del pianoforte tornato alle altezze a cui ci aveva abituato prima della malattia. Il pubblico alla fine – nonostante i capricci – gli ha tributato un'accoglienza trionfale con una chiassosa "standing ovation" e applausi senza fine. Quattro bis. tra standard jazz, un blues in quattro quarti, virtuosismi da ginnasta delle dita per finire con un set melodico, quasi sfiorando i tasti. Serata indimenticabile. Dalla quale uscirà un disco probabilmente più bello del precedente.

 

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